Slavery in the United States

It may seem extraordinary today but just less than 2000 years ago, many people throughout Europe, Africa and the Americas saw nothing wrong in slavery. This term refers to a condition in which individuals are owned by others and for them are forced to work; it is also called “chattel slavery”, so named because people are treated as the chattel (personal property) of the owner and are bought or sold as commodities…

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Giada Floris, 5ª A Linguistico 2017-18

The ballad

Ballads were originally written to accompany dances, and so were composed in couplets with refrains. Most northen and west European ballads are written in ballad stanzas or quatrains (four-line stanzas) of alternating lines of iambic tetrameter (eight syllables) and iambic trimeter (six syllables), known as ballad meter.

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Chiara Colombu, 5ª A Linguistico 2017-18

Cultura e intrattenimento

La palestra dell’Istituto Magistrale è un via vai continuo di alunni. Una muraglia di stand circonda il medesimo luogo. I ragazzi indossano indumenti insoliti; una sfoggia il suo vestito dai caldi colori, tipico del continente africano, un altro si presenta come sceicco indiano. Gli stessi insegnanti, pensate, sono in vesti non esattamente abituali: vi è addirittura una professoressa/ballerina di flamenco.
L’assemblea internazionale è iniziata poco fa. Gli studenti combattono per non fiondarsi sui piatti tipici delle varie culture, cibi dai nomi quasi impossibili da pronunciare. Devono attendere, perchè ora dovranno partecipare al canto collettivo dell’Inno d’Italia. Mentre Mameli li degna della sua melodia, forse per un istante ci si dimentica della situazione precaria che l’Italia sta vivendo, ci si sente semplicemente uniti, e il canto prosegue.
All’Inno d’Italia segue quello francese, e infine quello del Guatemala, Alehandra (la studentessa guatemalteca) attira l’attenzione di molti con la sua splendida voce.
Sono numerose le esibizioni alla quale si assisterà. La 4ª B linguistico con il ballo indiano “Jaih oh” ha smosso l’adrenalina di molti, che a stento riuscivano a rimanere seduti. Grazie alla collaborazione dei professori di lingue, vi sono state declamazioni in francese delle poesie di Baudelaire e persino una rappresentazione teatrale di “Little Red Cap”, divertente e dai risvolti imprevedibili.
La mattinata si conclude con balli generali, ma soprattutto un assaggio del buffet: particolare quanto invitante.
Il fine dell’assemblea è stato raggiunto. I ragazzi si sono addentrati in territori ignoti, hanno analizzato, confrontato le diverse culture del mondo e le hanno riprodotte in modo originale, e pertinente.

Stefano Sivo, 4ª B ped.

Il successo del Fantasy

L’altro giorno sono entrata in libreria, e ho notato che la maggior parte dei libri raccontava storie aventi come personaggi maghi e vampiri.
Così ho deciso di indagare sui motivi del successo di questo genere. Qual è quel particolare che spinge le persone a leggere, o a vedere, queste storie? Perché piacciono così tanto?

Una delle cose, ma non la più importante, che attira le persone è la copertina per i libri e la locandina per i film. La maggior parte delle volte vengono usati colori scuri, come il nero, il blu o il viola; molte volte invece, viene usato il rosso per simboleggiare il sangue. Quando vengono raffigurate le persone, il loro volto non viene raffigurato mai completamente: possono essere di spalle o il loro volto si può vedere soltanto in parte e questo fa nascere una certa curiosità.
Per esempio sulla copertina di “Marked”, romanzo scritto da Kristin Cast e P.C, è rappresentato il volto di una ragazza visibile solo per metà.
Queste caratteristiche catturano l’occhio delle persone, che sono portate a leggere la trama.

Inoltre i protagonisti vivono tra il mondo reale e il mondo magico.
In queste storie, i personaggi hanno poteri sovrannaturali, abilità e forza superiori a quelle umane e sono dotati di molta astuzia. I vampiri, la maggior parte delle volte sono descritti con una bellezza inumana, come creature molto affascinanti e con modi di fare e di parlare di un’altra epoca, dato che possono vivere per diversi secoli. Con queste doti i personaggi devono affrontare molte difficoltà nel corso della storia, ma grazie alle loro abilità riescono a superarle.
Però, devono affrontare altri problemi molto più comuni agli umani, in modo da far immedesimare il lettore nei personaggi. Per esempio in “Sangue blu”, romanzo scritto da Melissa de la Cruz, la protagonista, pur essendo una vampira, ha difficoltà a socializzare con i suoi compagni di classe e deve affrontare la morte di una persona a lei molto cara.

Oltre ai personaggi principali compaiono altri personaggi che vengono in aiuto dei protagonisti o li ostacolano.
Però questi personaggi, pur essendo secondari, hanno una loro importanza per lo svolgere della storia. Molto spesso vengono raffigurati come persone molto buffe, impacciate e simpatiche; i classici “sfigati”, sempre con la battuta pronta. Altre volte però sono persone molto intelligenti e sagge, anche più degli stessi protagonisti. Durante il corso della storia salvano il protagonista, in alcune occasioni anche a costo della vita. Per esempio in “Harry Potter” l’elfo domestico Dobby muore infilzato da un pugnale in un fianco, per salvare Harry dalla cattiva Bellatrix.

Un’altra carateristica di queste storie è che vengono trattati diversi temi. Non si parla solo delle avventure di maghi, vampiri e altre creature; ma anche dell’affetto familiare, dell’odio, dell’amicizia e dell’amore tra i personaggi.
Un elemento che non manca mai è sicuramente l’amicizia. Anche se il protagonista è solitario, ci sarà sempre un personaggio che lo aiuta, instaurando così un rapporto d’amicizia. In alcune storie, il protagonista diventa amico di un suo nemico, il quale alla fine della storia si converte dalla parte del bene. Basta pensare a “Breaking Dawn”, romanzo scritto da Stephenie Meyer e ultimo capitolo della saga di “Twilight”, inizialmente il licantropo Jacob e il vampiro Edward erano in lotta tra loro a causa delle loro specie, ma nell’ultimo libro combattono insieme per scacciare i nemici, diventando amici.
Quando in queste storie si tratta d’amore, questo è quasi sempre difficile e proibito. I due amanti, la maggior parte delle volte appartengono a due mondi completamente diversi e questo crea non pochi problemi. Per esempio in “Twilight”, romanzo scritto da Stephenie Meyer, un vampiro si innamora di un’umana e dovrà resistere al richiamo del sangue della sua amata.
In questo modo non si hanno storie che trattano solo di un argomento, ma di molti in modo da soddisfare i diversi gusti delle persone.

Perciò, storie sui personaggi con abilità sovrannaturali ce ne sono per tutti i gusti, i protagonisti sono forti, belli e affascinanti e sono sempre seguiti da personaggi comici o saggi.

Quindi, perché questo genere non dovrebbe avere successo?

Francesca Atzori e Francesca Prestino, I B ped.

In che modo tutti i bambini possono imparare le lingue straniere

In qualità di insegnante di inglese mi è spesso capitato, così come credo capiti a tutti i miei colleghi, di sentirmi rivolgere la domanda: “Come si fa a imparare bene l’inglese?” e ancora: “Come posso aiutare i miei figli a essere più bravi in inglese?”. Ho sempre risposto nei soliti modi… dal banalmente ovvio:

  • bisogna studiare molto, frequentare corsi, leggere in inglese, fare molti esercizi, parlare il più possibile con native speakers, soggiornare in Gran Bretagna,

allo scherzoso ma utile:

  • fidanzarsi o sposarsi con un/a native speaker.

Tutti questi consigli sono certamente validi ma non entrano nel merito di cosa esattamente si potrebbe fare soprattutto nel caso si voglia aiutare i propri figli ad acquisire una buona conoscenza di una lingua straniera. In realtà è possibile dare consigli più specifici sull’utilizzo di tecniche che sono alla portata di tutti coloro che abbiano una qualche conoscenza della lingua straniera e, anche, in alcuni casi, di coloro che la lingua straniera non la conoscono affatto.
In questo articolo verranno presentati i principali elementi alla base della teoria sull’apprendimento delle lingue straniere nei bambini e le tecniche specifiche da usare con riferimento a queste teorie.

  • I bambini possono imparare tutto da un adulto che loro amano e che li ama. Ai bambini piccoli non importa un bel niente dell’inglese, della matematica, del francese. A loro tuttavia importa moltissimo stare vicino alle persone più importanti: i genitori. Sono disposti a tutto pur di stare vicino a loro, sentire la loro voce, vederli e assicurarsi il loro affetto e la loro protezione.
  • Tutti gli esseri umani nascono con una predisposizione alla musica e alle canzoni. E’ come se avessimo un software collegato con la nostra capacità di memorizzazione verbale. A molti sarà capitato di notare come sia possibile imparare bene una canzone in una lingua straniera anche se poi non si riesce a parlare quella stessa lingua. Questo succede perché il nostro cervello registra facilmente una motivo musicale soprattutto se orecchiabile per cui non è difficile ricordarsi le parole associate a quella particolare musica.
  • “La completa acquisizione delle componenti fonologiche sia percettive (per es. la discriminazione dei fonemi ovvero la capacità di distinguere i diversi suoni di una lingua) sia motorie (assenza di accento straniero nel parlare le lingue straniere) si raggiunge solo se i bambini hanno la possibilità di vivere in continuo contatto con la seconda lingua prima dei sei anni. Inoltre dopo gli otto anni si inizia a perdere la capacità di imitare la prosodia della lingua straniera.” (1) Tutti i bambini posseggono, alla nascita, questa potenzialità, tanto è vero che un bimbo di genitori italiani che dovesse nascere e vivere in Cina potrebbe imparare il cinese usando e riconoscendo tutta la gamma di suoni di questa lingua oltre ai suoni propri della lingua italiana se, ovviamente, i genitori parleranno con lui/lei in italiano. Purtroppo questa possibilità si perde se quei suoni non vengono attivati entro un certo periodo di tempo. E’ come se avessimo uno shareware incorporato che si disattiva dopo un determinato periodo e non sarà più possibile riattivare. Da quel momento in poi sarà certamente possibile acquisire i fonemi di un’altra lingua straniera ma soltanto attraverso uno studio sistematico e continuo e comunque senza mai raggiungere un effettivo “bilinguismo”.
  • Tutti i bambini amano sentirsi raccontare delle storie e, soprattutto, amano riascoltarle più e più volte. L’importante è che nel raccontare si utilizzi la mimica, si drammatizzino le scene, si ricorra a toni di voce diversi, si utilizzino le immagini, si faccia partecipare attivamente il bambino.
  • Tutti i bambini possono apprendere facilmente più di una lingua. I molteplici studi esistenti sull’argomento dimostrano la veridicità di questo enunciato. Le due o tre lingue non si sovrappongono, non creano problemi di apprendimento, non sono causa di confusione anzi migliorano le capacità cognitive in quanto si ha, in questo modo, la possibilità di paragonare due o più modi di esprimersi e quindi avere la mente aperta al fatto che esiste più di una modalità di espressione. In Sardegna la maggior parte delle persone è in grado di confermare il fatto che ci si può esprimere adeguatamente solo in italiano in certe occasioni, e solo in sardo in altre, senza mai mescolare queste due lingue.

Vediamo adesso come mettere in pratica tutto questo.

  • A casa, con i bimbi piccoli (1,2,3,4 anni), imparare a memoria delle canzoncine, lullabies e nursery rhymes e cantarle insieme. Usare i cd a casa e in macchina, quando si viaggia. (Si trovano libretti e cd in vendita nelle librerie scolastiche che si occupano delle scuole elementari).
  • Dai 2 anni in poi, se si sa parlare un po’ e si pronuncia decentemente, comprare dei libri di fiabe in inglese con molte illustrazioni, leggerli e drammatizzarli usando toni e diverse voci. Meglio ancora, magari dopo un po’, impararle a memoria e raccontarle drammatizzandole sempre e facendo ai bambini delle domande sulle illustrazioni prima e sulla storia più avanti. E possibilmente raccontare, altrimenti leggere, in inglese le fiabe o i racconti drammatizzando il tutto, usando voci diverse.
  • Ascoltare audiolibri quando si viaggia.
  • Guardare i cartoni e, più avanti, i film, insieme. Installare una parabola e vedere insieme ogni giorno i programmi della BBC per bambini e commentarli insieme. Anche Rai educational va bene (la maggior parte dei programmi di Rai Educational sono della BBC).
  • Nei primi anni della scuola elementare, comprare degli audiolibri graduati per bambini (si inizia da quelli più semplici per poi progredire di livello in livello fino a quando, a seconda dell’interesse, inizieranno a leggere libri non graduati come Harry Potter, Alice in Wonderland e vari altri libri per ragazzi che si potranno man mano acquistare) e leggerli insieme ascoltandoli sia a casa che durante i viaggi in macchina.
  • Incoraggiarli sempre e imparare insieme a loro.

Per tutti quanti, sia che conoscano la lingua sia che non la conoscano affatto ma abbiano tanta voglia di imparare, segnalo un metodo elaborato dalla Prof.ssa Traute Taeschner della Facoltà di Psicologia 1 dell’Università La Sapienza di Roma in collaborazione con altre Università Europee. La Prof.ssa Taeschner insegna “Tecniche di osservazione clinica del comportamento” ed è esperta in bilinguismo infantile.
Si tratta di format narrativi che vengono usati per insegnare la lingua straniera (inglese, francese, tedesco, italiano, spagnolo) ai bambini dai 3 agli 11 anni per mezzo di racconti, cartoni e canzoncine. Esiste un sito internet attraverso il quale si possono acquistare i libri, i CD e i DVD oltre ai testi della prof.ssa Taeschner: www.hocus-lotus.edu . Questo metodo viene usato in varie scuole dell’infanzia e scuole elementari del nord Italia. Lo possono utilizzare anche i genitori che non parlano l’inglese se hanno una grande motivazione.
Il metodo della Prof.ssa Taeschner è basato sui principi da me descritti all’inizio dell’articolo e pertanto fa ampio uso della musica e delle storie rilevanti per i bambini della scuola materna fino alle soglie della pubertà.
Se si riesce a fare tutto questo abbiamo messo le basi per un futuro bilingue o quasi. Se non si riesce a seguire tutti i suggerimenti ma soltanto alcuni o anche uno solo, si è comunque fatto un passo avanti che farà sì che, in futuro, i nostri figli affrontino con migliori risultati lo studio di una lingua straniera.

Prof.ssa Pasqualina Pintus

Glossario:

Shareware: Programma per computer che può essere utilizzato per un limitato periodo di tempo
Software: Programma per il computer
Fonema: La più piccola unità del discorso che può essere utilizzata per rendere una parola diversa da un’altra, per esempio tetro – metro.
Prosodia: ritmo.

Bibliografia:

Gardner H.: Frames of Mind. Theory of Multiple Intelligences, 1993 (Le Intelligenze Multiple)
Goleman D.: Emotional Intelligence, 1995 (Intelligenza Emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Rizzoli Ed., Milano 1996)
Taeschner T.: The sun is feminine, Heidelberg 1983 (Il Sole è femmina, Roma, Edizioni D per l’Università, 2003)

E’ dedicato all’acquisizione della lingua da parte di bambini che sono stati esposti a due lingue dalla nascita

Taeschner T.: L’insegnante magica, edizioni Borla, Roma

In questo volume si dimostra, sulla base di un’ampia ricerca scientifica, che è possibile imparare una lingua straniera già nella Scuola dell’Infanzia e si descrivono le condizioni fondamentali da rispettare perché i bambini la imparino volentieri e senza sforzi

Fabbro F., The Neurolinguistics of Bilingualism, Howe/Psychology Press, 1991.

[1] Aglioli S – Fabbro F., Cervello Poliglotta e Apprendimento delle Lingue, Le Scienze, dossier num. 14, Inverno 2002

Vita maledetta

Scusa e grazie

“Per vivere come un cane non è meglio che la fai finita?”.
Ecco una delle frasi più significative del film di Gavin Hood “Il suo nome è Tsotsi”.
Una storia alquanto commovente quella di un giovane ragazzo, abitante del Sudafrica, che vive in una vera e propria bidonville.
Tsotsi, il protagonista, si presenta come un poco di buono, un assassino, un bullo, ma che nel profondo dimostra di avere un cuore. Il suo essere cattivo e duro è dovuto a un trauma familiare subito durante l’infanzia. David, questo è il suo vero nome, nasce in una famiglia che non si può di certo definire benestante e unita.
La madre, che verrà colpita da una grave malattia, dimostra di avere un grande affetto per il figlio, un affetto che non è per niente dimostrato dal padre.
Tsotsi, in seguito a un brutale episodio, scappa di casa e va a vivere per strada, sistemandosi “alla meglio”. Egli avverte profondamente la mancanza di una famiglia e lo fa ben notare in molti dei suoi comportamenti. Qualcuno nella sua vita darà una svolta significativa, qualcuno a cui si affezionerà molto, che lo farà cambiare e che per la prima volta gli farà dire scusa e grazie.
Tutto sommato un bel film, in grado di colpire lo spettatore e che potrebbe far cadere qualche lacrima.
Un film, però, che, come tutti gli altri, ha dei punti deboli. La scenografia non è delle migliori; alcune scene, come la caduta della pioggia e dei lampi, sono visibilmente montate. Alcune scene sono eccessivamente dure e all’interno del copione è presente qualche parolaccia di troppo. Anche la recitazione ha dei punti deboli, alcune scene sono troppo inverosimili: si può essere sul punto di morire e accennare soltanto pochissimi segni di paura?
Queste, però, sono delle sfumature che non condizionano eccessivamente la bellezza del film.
Va fatta una riflessione molto importante su una parola significativa, forse la più di tutte, pronunciata durante il film: decenza.
Alcuni non sanno neanche cosa voglia dire e il film riesce a spiegarlo bene. La decenza, infatti, viene definita come “il rispetto (prima di tutto) per se stessi”; ma viene anche specificato che, in quella società, di decenza ce n’è ben poca.

Giulio Palmas, II B ped.

Tsotsi = gangster. Ma sarà vero?

Tsotsi è un delinquente impavido e senza emozioni che vive alla giornata, non esitando a uccidere a impulso. Quando gli vengono fatte troppe domande reagisce spesso con una violenza senza scrupoli.
Dopo aver brutalmente rubato una macchina, Tsotsi si sorprende nel trovare, sul sedile posteriore, un neonato che piange. Presto, il bambino risveglia in lui memorie dolorose della sua infanzia: la sua esposizione alla violenza del padre e la sua vita passata nei grandi tubi di cemento con altri bambini sfortunati, come lui. Inizialmente Tsotsi nasconde il neonato nella sua casa, nella baraccopoli di Johannesburg, lontano dai suoi amici delinquenti, ma più tardi lo trasporta in una busta della spesa dovunque vada. Tuttavia l’incapacità di Tsotsi nel prendersene cura lo costringe a seguire una ragazza vedova a cui ordina, con la pistola, di allattare il “suo” bambino.
Il film descrive bene l’ambiente duro e scuro che circonda Tsotsi e la vita di povertà tremenda che conduce.
Tsotsi realizza una nuova prospettiva sulla vita, che lo trasforma, aiutandolo a definire chi veramente è, e generando in lui un desiderio di fare del bene e avviarsi verso la restituzione del bambino. Ci riuscirà?
Molto interessante in questo film è lo sviluppo del carattere; inizialmente vediamo un ragazzo impulsivo e violento che è svelto nell’agire e nel fuggire dalle conseguenze delle sue azioni. Vediamo piano piano l’evoluzione di Tsotsi in un individuo più maturo che basa il suo comportamento sulla ragione piuttosto che sull’impulso.

Susanna Cuscusa, II B ped.

Vita maledetta

Un film di: Gavin Hood
Genere: drammatico

Tratto da un romanzo del sudafricano Athol Fugard, il film racconta una storia del tutto emozionante.
Come tanti bambini del Sud Africa alla periferie delle grandi città, che crescono per strada senza una famiglia o – nel caso del film – in campagna al riparo di tubi di cemento abbandonati, anche il nostro protagonista ha vissuto parte della sua giovinezza in questo modo. Una volta cresciuto, Tsotsi si ritrova a vivere in una baraccopoli e a far parte di una banda di ragazzi che pensano a se stessi e a cercare soldi, rubandoli, senza pensare alle conseguenze per se stessi e per gli altri. Qualcosa nella vita di Tsotsi cambierà e si renderà conto che dalla vita ci si può aspettare di tutto…
Da questo film ci possiamo aspettare che il protagonista parli e che faccia immensi discorsi, ma caso vuole che il nostro Tsotsi parli soprattutto tramite gli occhi; questa scelta del regista può sembrare un po’ azzardata, ma si è rilevato molto efficace, perché fa pensare e hai la possibilità di immedesimarti meglio nelle vicende, e in quello che il protagonista prova dentro di sè in determinate situazioni (ottima interpretazione di Presley Chweneyagae nel ruolo di Tsotsi).
Non conosco altri film di questo genere e se l’avessero trasmesso in tv, forse, non lo avrei visto, ma mi sarei persa un film bello, pieno di emozioni e soprattutto un film molto adatto per le persone che provano compassione per gli altri e che sono altruiste, perché questo film ti regala immense emozioni. Il film è accompagnato da una musica di tensione che ti tiene con il fiato sospeso fino all’ultima scena.
Si possono dare varie interpretazioni del senso di questo film, dicendo che, forse, è stato girato per farci capire che molti problemi non capitano solo alle persone che vivono nelle grandi città ma anche a quelle che vivono nelle baraccopoli e sono ignorati, e non si pensa che nel loro passato si nasconda un’infanzia atroce, vissuta senza affetti familiari; infatti il punto fondamentale di questo film può essere la famiglia, perché, se ci pensiamo bene, questo ragazzo se avesse avuto una famiglia che lo avesse istruito e amato avrebbe fatto quello che ha fatto? No, quindi noi molto spesso ci lamentiamo di avere dei genitori troppo all’antica, che non ci fanno fare nuove esperienze e noi ci lamentiamo sempre, ma se facciamo un’osservazione accurata forse ci accorgiamo che se non avessimo avuto una famiglia che ci sostiene sempre e che ci dà vitto, alloggio e amore noi saremmo come questo ragazzo che fa le cose senza pensarci e che non immagina che anche altre persone possano soffrire per le sue cavolate.
Quindi dobbiamo essere grati di quello che abbiamo.

Roberta Zucca, II B ped.

Ricordi del passato

Era il temporale più violento a cui avesse mai assistito, la pioggia urtava contro le finestre, i tuoni risuonavano in tutta la casa come urla e una bambina stava rannicchiata sotto le coperte, i riccioli sbucavano fuori dal lenzuolo e gli occhi erano serrati per la paura; non vedeva l’ora che quel trambusto cessasse.
Passò qualche ora prima che riuscisse ad addormentarsi, i suoi pensieri galleggiavano in uno spazio interminabile, riusciva a scorgere i visi dei suoi genitori che la rassicuravano per il suo primo giorno di scuola:
“Piccola mia, vedrai che andrà tutto bene, non hai nulla di che preoccuparti” le diceva la madre mentre le dava un buffetto sulla guancia; lei girò il capo verso il papà che rimase burbero e impassibile a guardarla, ma giurò di aver visto un sorriso tenero sotto ai grandi baffi.
Con innocenza gli tirò la manica della camicia per farlo inchinare verso di lei e gli diede un bacio sulla guancia, lui le sussurrò “giudizio, mi raccomando” e senza dire altro tornò alla macchina.
I suoi pensieri tornarono ad un’altra scena, i genitori stavano litigando il giorno di natale e lei era seduta in un angolo della stanza, piangendo.
Ma ecco un altro flash-back, lei e la sua migliore amica sdraiate sul tappeto guardavano il fumo dell’incenso acceso dileguarsi nell’aria, che prendeva forme diverse, cantavano e scherzavano…
Ora si trovava in classe, i compagni l’additavano e la professoressa non diceva niente per farli smettere, la sua amica era seduta nel banco e assisteva alla scena in silenzio…
Si trovava di nuovo in camera sua, la luce soffusa illuminava a malapena il suo viso, che riflesso nella specchio la osservava con sguardo torvo, quasi di sfida, ma che lasciava trasparire terrore allo stato puro; non era più una bambina, ma una ragazza, l’immagine che vedeva era solo un banale ricordo di ciò che era stata, andava via via a confondersi con le tenebre che la circondavano, i contorni erano spariti, ma restavano ancora quegli occhi, freddi come il ghiaccio, che la fissavano con furia, carichi di dolore e di odio.

Cadere giù

17 anni. Una vita buttata così. Non aveva chiesto di nascere, non aveva chiesto la vita, la luce.
Un’infanzia felice, serena, tranquilla, dove solo i giochi contavano.
Poi si cresce, poi iniziano i problemi e le difficoltà.
Poi la tragedia. Un giorno come tanti, la pioggia cadeva fitta;
– Sì tesoro sono in strada, arriverò tra qualche minuto -.
– Muoviti papà, qui ci sono già tutti, hai comprato la torta e il mio regalo? –
– Sì certo, ho preso tutto… ci vediamo tra un po’… –
Il piede calcò d’istinto l’acceleratore. Non poteva mancare al compleanno di sua figlia… non poteva.
La pioggia cadeva fitta, solo un tonfo e niente di più…
Luci, suoni, urla…
Non poteva mancare a quel compleanno, ma fu costretto a farlo.
Fu un duro colpo per Laura quando apprese la notizia.
Lei non aveva chiesto di nascere.
Non cercò conforto, coccole o dolci parole, il mondo le aveva tolto ciò che più amava.
Che ci faceva ora qui? Che senso aveva la sua esistenza?
E così cresceva, veloce, bellissima e triste.
Così cresceva sola ed irrequieta.
Arrabbiata col mondo, sì arrabbiata con la vita, arrabbiata con lui perché era andato via troppo presto.
Un vuoto interiore incolmabile, così giovane ma già così sola, con gli occhi spenti affrontava la vita, con la svogliatezza di chi ha perso tutto, sopravviveva e nulla chiedeva in cambio se non di poter star sola, sola per sempre.
Nessun amico che potesse confortarla, nessun ragazzo che potesse rassicurarla, non voleva nessuno accanto a sé ma disperatamente cercava un aiuto, un appiglio… e lo trovò.
Non parlava, non dava consigli, non giudicava, non urlava contro dicendoti “fatti forza, puoi farcela”. Era così apparentemente innocua, così candida da sembrare benevola.
Quell’ipocrita felicità le bastava, si accontentava di star bene per mezz’ora, s’illudeva che presto tutto si sarebbe aggiustato e non si preoccupava di dire “smetto quando voglio”, perché smettere non le importava, perché non le importavano le conseguenze, il futuro… solo il presente contava, solo il disperato desiderio di trovare un modo per continuare a sopravvivere, solo la stancante voglia di avere un motivo per non morire, per non cadere giù.

In fondo era solo una bambina, una giovane adolescente bisognosa non di attenzioni particolari, ma di un po’ di pazienza, di qualcuno che con coraggio sapesse entrare nel suo cuore, nella sua mente e le permettesse di far fuoriuscire la rabbia e la disperazione .
Piangeva in silenzio, piangeva piano, piangeva lenta.
La pioggia cadeva fitta, non aveva più voglia di niente, nulla le importava… ora ciò che più desiderava era andare lontano, via da ogni cosa che ormai aveva perso significato.
Le campane suonavano meste e lentamente la folla si dirigeva a dar l’ultimo saluto.
In fondo siamo tutti di passaggio,
ma era troppo presto.

Consuelo Trogu

Ombre sotto i cipressi

Giardino spoglio in novembre, è venerdì sera.
Manuela non si curava delle sfumature rosse sulle foglie croccanti, studiava, invece, l’umidità della terra ed i suoi ospiti, piccoli insetti e lombrichi, piccoli e viscidi vermiciattoli.
Alla sua finestra, accostata al davanzale impolverato, poggiava il viso sul dorso della mano sinistra, nascosta dietro enormi occhiali, occupava il minimo spazio di una stanza dalle pareti ingiallite, stropicciate di crepe e dall’aria irrespirabile.
Non era la sua camera, lei viveva presso la stazione, un cupo monolocale squallido, stretto, trascurato, vi lasciava i suoi oggetti,i suoi abiti, ma non la sua presenza.
Manuela si stabilì su quel davanzale, mangiava al davanzale, parlava dal davanzale, pensava sul davanzale e moriva e giaceva ogni giorno nel davanzale.

La piccola stanzetta dell’ospizio, fredda d’inverno, calda d’estate era il solitario focolare d’un vecchio rimasto solo, vedovo e senza figli, il signor Antonio Alberti, lavorava in portineria con sua moglie prima ancora che si sposassero e in seguito divenne operaio.
Non gli era mai piaciuta la vita in fabbrica, priva di relazioni sociali, ripetitiva e meccanica.
Dopo la pensione sognava la campagna e la moglie al suo fianco, ma dopo la pensione non ebbe più moglie né campagna.
Novantatre anni gravavano sugli occhi vispi e accesi, sulla schiena curva e le mani rigide.
Le uniche amorevoli cure che riceveva erano quelle di Manuela, ella al mattino entrava di soppiatto, spalancava tende e persiane, il signor Alberti gradiva la luce, amava inondarsi di luce, lei lo svegliava con un sussurro e gli offriva una deliziosa e abbondante colazione.
Trascorrevano la mattina tra passeggiate in giardino e tenere conversazioni, Manuela leggeva per lui dei libri o canticchiava canzoni.

Si era instaurato fra i due un rapporto molto intimo,quasi filiale, l’anziano adorava dispensarle consigli e lei sebbene non li mettesse in pratica li assorbiva avidamente.
Antonio si accorse presto della complessità e della stranezza della ragazza, gli si stringeva il cuore a vederla sempre là, con lui o assorta alla finestra di quella camera, adorava la sua compagnia ma gli pareva di derubarla del suo tempo e della sua età.
Lui sapeva bene che quell’età è la migliore, e non torna più, l’età della spensieratezza, delle piccole sciocchezze, l’età dell’amore e delle notti insonni.
Le notti di Manuela però, insonni lo erano.

Nell’ospizio i due facevano molto parlare di loro. I soliti invidiosi e cinici commenti di anziani inaspriti dalla vecchiaia e dalla solitudine. Il loro rapporto non era neanche simile a quello fra gli altri infermieri o volontari e gli ospiti del centro; albergava freddezza, professionalità ed indifferenza.
“La signorina Manuela sa il fatto suo, non presta a me le sue attenzioni, se ne guarda bene dallo sprecare il suo tempo con chi non può ricambiare il favore!” insinuò la signora della stanza accanto a quella di Antonio.
“A me non interessa – rispondeva, seccato il suo interlocutore, Giovanni, uomo orgoglioso che odiava i pettegolezzi – tu, ti porterai il veleno e l’invidia nella tomba,Elvira, Antonio è un uomo solo faccia quello che crede dei suoi soldi, sempre meglio che vadano a te, lei è giovane, tu cara, non lo sei più da un bel pezzo, ed ora lasciami fare, le carte mi danno più soddisfazione di te, guardati la tv!”

Come Elvira in tanti pensavano che Manuela fosse un’opportunista a caccia di dote, e non lo faceva cercando ricchi uomini da sposare, ma aspettava pazientemente che il caro ed amato “padre” o “nonno” se n’andasse all’altro mondo.
Il signor Alberti aveva sì messo qualcosa da parte, e molto probabilmente sarebbe stato felice di lasciare i suoi averi a quella ragazza così sola, così triste, così affabile e irrequieta, Alberti notava e si dispiaceva del suo malumore, benché lei cercasse di nasconderlo.
Manuela ignorava del tutto le ipotetiche intenzioni del suo amico, e non capiva cosa avessero da cianciare alle sue spalle, in ogni caso lei non sentiva, non sapeva e continuava a far quanto si sentiva.

Durante le sue meditazioni alla finestra dell’anziano pensava al giorno in cui lei avrebbe dormito in quel letto, non ne avrebbe voluto nessun’altro, ormai lo conosceva così bene, ne conosceva inclinazioni e scricchiolii, non pensava come le altre ragazze al corredo del letto nuziale, fantasticava sul suo ultimo giaciglio, dal quale avrebbe osservato ancora e fino alla sua ultima ora quel cipresso che adombrava il cortile, il cipresso che lei e il suo compagno avevano adottato.
Stesso albero,diversi ricordi.
Spesso si perdevano in interminabili silenzi a guardarlo entrambi, fra muti pianti soppressi e teneri sorrisi trattenuti.
Non si confidarono però quali pensieri ebbero a riguardo, i loro discorsi non si spingevano mai oltre argomenti che interessassero cultura generale o eventi poco significativi della loro esistenza, potevano parlare di qualche viaggio, o avvicinarsi alla politica, alla musica, ai libri, Antonio raccontava della guerra, ma tacevano ciò che avrebbero voluto urlare.

Ella era mite, pacata, attenta, aveva venticinque anni, un sorriso fioco, teneva i capelli con una grande pinza fucsia, erano disordinati, mangiava le unghie ed era sempre vestita di nero, sempre vestita a lutto, indossava abiti larghi che non facevano intuire le sue forme delicate, quegli abiti esprimevano la pena che sentiva per il suo corpo, per la sua tacita commiserazione e per la mondanità.
Nessuno conosceva di lei niente di più del suo nome, lei stessa per riconoscersi la mattina appena si alzava, doveva presentarsi allo specchio e dirsi chi era, così ogni giorno ristrutturava la sua vita senza però mai riuscire a darle un senso.
Dietro i suoi occhiali e dentro i suoi vestiti c’era il suo passato.
Manuela non conobbe mai sua madre, e suo padre se ne andò presto, rimase sino all’età di diciotto anni in un orfanotrofio, le mancarono subito le attenzioni e le cure di una famiglia, si legò per questo ad un giovanotto, Alessandro, aveva la sua stessa età, in lui vide un amico, un fratello, un confidente, un complice, e per così dire, un piccolo “amante”, a lui diede i suoi primi baci ed i suoi unici baci.
Maschi e femmine non si potevano incontrare se non alla mensa e nelle ore ricreative, ma loro fecero in modo che le ore ricreative raddoppiassero e rubavano alla notte qualche dolce attimo in più, per scoprirsi, per abbracciarsi.
Fuggivano dalle loro stanze e si incontravano puntualmente alle undici e mezza ai piedi di un cipresso sul cortile posteriore, il venerdì poi, stavano a giocare a parlare e a sognare tutta la notte, fino al levarsi del sole.
Si costruivano una vita insieme e di lì a poco avrebbero realizzato i loro progetti.
Quel cipresso ascoltò le loro risate, spiò i loro baci, sentì le loro parole, carezzò la loro pelle.

Un venerdì notte, a novembre, nevicava, i due giovani uscirono comunque, quel giorno Alessandro le disse che se ne sarebbe andato, un suo lontano zio trovò lui lavoro, le disse che lo faceva per lei, se ne sarebbe andato per trovare casa e condurla con sè, quella stessa notte lui varcò l’inferriata di quel tetro edificio, voleva portarle delle castagne, lei le adorava.
Alessandro quella notte non tornò con le castagne.
Quella forte nevicata causò numerosi incidenti per le strade, e quella notte Alessandro ne rimase vittima. Travolto da una macchina morì sul colpo, la neve non fu più candida e lieve, la neve divenne sporca e rossa, traguardo d’avvoltoi.
Manuela presto abbandonò l’orfanotrofio, si trovò nel mondo frenetico e crudele, più sola che mai, senza Alessandro e senza più se stessa.

Il suo corpo venne sepolto nel cimitero della città, ai piedi d’un cipresso, ella ne abbracciava il tronco, ne baciava la corteccia, compagno, e amante divenne quel cipresso a guardia del suo amato. Lo chiamava col suo nome.
Una foto ingiallita dietro un vetro sporco, non le rimase che quello di lui, e quello venerava più di qualsiasi altra cosa.
Alberi e fiori, terra e marmo la sua casa, la loro casa.
Le chiavi in mano a custodi sconosciuti, l’ingresso libero agli estranei.
Lei lo amava,fedele come un lupo, s’accasciava, leccava il suo dolore, sola, ma a lei piaceva star sola, con lui che l’accarezzava nel vento, le parlava nelle foglie, la baciava nella pioggia.

“Manuela sai perché gioisco di fronte a quest’ albero?”
“No signor Antonio, mi dica…”,
“Per l’amor del cielo, basta con questo ‘signor’, figliuola, permettimi di dirti che per me sei la figlia che non ho mai avuto, non chiamarmi papà, per rispetto al tuo che non ho mai avuto il piacere di conoscere, ma almeno Antonio concedimelo…”
“Mi scusi Antonio, ha ragione…”
“Manuela? e non darmi del lei…”
“Va bene, perdonami…”
“Ma sì… dicevo… ah, il cipresso, è così alto, pare voglia arrivare al cielo e alle beatitudini che promette. Da giovane, prima di sposarmi vedevo segretamente mia moglie, e luogo dell’appuntamento era un cipresso nascosto nel giardino della villa presso cui la sua famiglia lavorava, è ai suoi piedi che le ho chiesto di sposarmi e lei mi ha detto sì.”

Manuela abbozzò un sorriso, il respiro le mancò e il sangue quasi le si coagulò nelle vene.
Non rispose, non pianse, non s’alzò, impietrita ed immobile folgorava il cipresso e non ebbe il coraggio di voltarsi verso Antonio.
Alberti non seguitò, capì che Manuela non s’accese per quella rivelazione, tutt’altro, s’accorse che le sue parole avevano eroso o destato qualcosa di spiacevole, anzi, qualcosa di fortemente doloroso.
Fu ancora silenzio, questa volta un silenzio pesante, fangoso, un silenzio folle.
Manuela se ne andò, lo salutò con un bacio sulla fronte, lo lasciò alla finestra e sbatté la porta.
Antonio mortificato non si mosse, aveva ferito chi più gli era cara, la gioia con cui ricordava sua moglie mutò in senso di colpa per Manuela.

Era venerdì sera, novembre, fuori nevicava, Manuela dal suo appartamento sentiva sferragliare il treno, quella notte, però, lo aspettava, agitata e ansante, voleva farsi rapire e viaggiare sul suo fischio.
Veloce e appesantita spalancò le finestre, le uniche due della stanza, risanò i suoi polmoni, permise alla luce dei lampioni di entrare, e volentieri l’accolse; si gettò poi sull’armadio, cercò una dimenticata stampa di Degas, adorava Degas negli anni dell’orfanotrofio, per ore guardava quell’imitazione nel salone, adorava la grazia di quelle ballerine, “Ballerine sulla scena”, una ballerina in atteggiamento di curiosa scoperta, i piedi in terza posizione a testare il palcoscenico, sfumature verdi sullo sfondo.
L’imminente movimento, il principio della danza eliminavano l’immobilità che l’opprimeva, il rosa pastello del tutù e delle punte, era il colore della florida fanciullezza femminile.
Si nutriva dei fiori che ornavano l’acconciatura di quella ballerina.
Degas, come un profumo svaporato non sortì più il suo effetto, Manuela odiava quelle ballerine, non ne distingueva più i colori; rosso, vedeva solo il rosso, lo vedeva sulla stampa, in casa e addosso, se lo sentiva colare sulla pelle, denso e odoroso.

L’invadente trillo del campanello la destò dall’inquietante visione che costruiva, “Il signor Alberti non sta bene, si rifiuta di assumere le medicine e non mangia, Manuela ci pensi lei per cortesia, a lei presta ascolto.” Così un’infermiera si presentò nel suo appartamento.
“Mi dia solo un attimo, la raggiungerò al più presto, prego, torni pure alle sue faccende.La .br />

Davanti allo specchio sciolse i capelli,come piacevano ad Alessandro, tolse gli occhiali, si riscoprì adolescente e s’inventò adulta.
Trovò Antonio all’ombra del cipresso, s’inginocchiò e posò il capo sul suo grembo, egli fu lieto di vederla là, accanto a lui e si commosse.
Manuela gli spiegò, gli disse cos ‘era per lei quell’albero, pianse tanto e pianse a lungo.
Insieme pregarono, l’un con l’altra si consolarono, Antonio mangiava neve, Manuela inghiottiva cenere.
Salirono su, la ragazza diede le medicine al vecchio, lo nutrì, lo aiutò a stendersi e lo coprì.
“Papà, non c’eri quando piangevo e non c’eri quando scappavo. Non mi hai mai chiesto cosa avrei voluto fare da grande, non mi hai mai baciato sulla fronte.”
“Manuela cara, se solo ti avessi incontrata prima, avrei asciugato le tue lacrime, ti avrei rincorsa, ti avrei aiutata a realizzare i tuoi sogni, e non uno, ma mille baci avrebbero coperto la tua fronte.”
Avevano talmente bisogno di stringersi che fingevano una parentela, era vera finzione o finta realtà, ciò non importava, a loro stava bene così.

Si assopì il signor Alberti, e Manuela dopo aver salutato il loro albero, durante la notte, insonne come altre, rassettò la stanza, piegò gli indumenti, ne preparò di nuovi e li posò sulla poltrona, scelse i più eleganti ed i più sobri, era una ragazza pignola nonostante trascurasse se stessa.
Scivolò silenziosa in infermeria, trasse una siringa da un cassetto, si soffermò dubbiosa sulla sostanza da introdurci.
La scelta fu presto fatta. Aria. L’avrebbe riempita d’aria, di quella stessa che insieme respirarono, di quella tetra e tersa aria che li abbracciava e li divideva.

Tornò da Antonio, lo osservò dormire, ne respirò il fiato, pesante e grave, non si muoveva il signor Alberti durante il sonno.
Impotente di fronte al destino che la travolse volle essere qualcosa di più per quell ‘uomo, per quel vecchio, per quel padre.
Lo amava svisceratamente ed altrettanto lo odiava, pretendeva le appartenesse e sperava si allontanasse.
Il cipresso, era lui a parlare, a ordinare, Alessandro le comandava di farlo, per lei, per lui, per loro.
Non tollerava Manuela, che il padre da cui era stata abbondata avesse ricordi felici, aveva tanto sofferto da piccola e continuava a soffrire; non sopportava che quel cipresso innevato per lui si colorasse di gioia e per lei di disperazione, doveva pagare, qualcuno doveva pagare, suo padre lo avrebbe fatto, il signor Antonio Alberti.
Pensò questo mentre intonava una ninna nanna, gli accarezzava i capelli e gli baciava le labbra.
Aprì la finestra, fece entrare Aria. “aria di neve e fiocchi si posano sul mio davanzale, trespolo di un uccello in gabbia, ali tarpate, becco serrato, e tu papà, come sarai contento fra poco, lo saremo entrambi.”

Scostò le coperte, prese il braccio di Antonio, all’ombra del loro cipresso che investiva la stanza, la mano di lei afferrò la siringa e bolle d’aria nel sangue.
Il cuore gli si arrestò, infarto.
Manuela avrebbe voluto guardarlo negli occhi un’ultima volta, non poté, i suoi occhi sognavano.
“Buon viaggio papà”.
Indossato il soprabito scese, salutò il cipresso e guardò la finestra dalla quale si affacciava sempre.
Orfanotrofio e cimitero le ultime mete.
Al settimo anniversario, in un venerdì di novembre, bagnò di lacrime la foto ingiallita, perché Alessandro non la vedesse si spostò, sorrise Manuela, niente più stranezze, niente più bisbigli, un nodo di cravatta e…

Sintesi

Manuela è una ragazza sola,perde l’identità e scivola nel tunnel dell’ossessione e della follia.
Antonio Alberti è un anziano solo ma ancorato alla vita e ai suoi ricordi.
Ciò che per Manuela è triste e doloroso per Antonio è felice.
Un oggetto, due interpretazioni e differenti realtà.

Nel racconto ho voluto sviluppare alcuni aspetti significativi della poetica pirandelliana.
L’alienazione e la perdita,l’incomunicabilità e la verità illusoria.
I protagonisti si trovano in una sorta di sospensione della realtà, vite irrisolte e spezzate, rose da un turbamento interiore che non lascia spazio in nessun modo alla catarsi.

Vanessa Pia

Sylvia Plath

Sylvia Plath was an instinctive poet with great intelligence and strong pessimism.
Her life was crowded with events and experiences but above all with suffer that made her a symbol of Feminism.
It also appears in poems, diary and in the only one novel she wrote, “The Bell Jar”.
Sylvia was born on October 27, 1932 in Boston. Her parents were both university lecturers from whom she probably learnt the interest in writing.
Her father died in 1940, when Sylvia was only 8 years old.
She was still confused and angry about her father’s death, she sometimes felt that, in a way, he had committed suicide because he could have prevented it. Her strong and conflicting emotions of love, hate, anger and grief at the loss of her father were to affect Sylvia for the rest of her life. In that moment she proclaimed: “I’ll never speak to God again“.

On the 12th October 1962, the year before she committed suicide and during the breakup of her marriage, she wrote “Daddy”, a poem which became a cult text for the American feminists.
It’s a terrible poem, full of blackness and one of the most nakedly confessional poems ever written.
She describes her true feelings about her deceased father.
Throughout the poem, many instances illustrate a great feeling of hatred toward Plath’s father. At the beginning, she expresses her fears of her father and how he treated her.
These feelings are clear for example in “I never could talk to you“, “The tongue stuck in my jaw“, but the sense of the childhood terror melds into a suggestion of the Jewish persecution and terror with the next line: “It stuck in a barb wire snare“. She admits that she was afraid of him.
The historical references to wars being fought in Germany allow her to dramatize her rebellion against the oppressive father. In the first stanza she compares him to a “black shoe in which she has lived like a foot” and it is certainly a stifling image but not yet a clear reference to the father’s evil nature. Next he is “Marble heavy, a bag full of God” and a “Ghastly statue“, images which reveal the daughter’s struggle to cope with his death.
The turning point in the poem is “But they pulled me out of the sack and they stuck me together with glue, And then I knew what to do. I made a model of you“.
This last statement could mean she made of her father a prototype of all men.
Her image of the “man in black with a Meinkampf look” is superimposed to destroy, she has two, the prototypic father and the husband who is fashioned in his likeness.

The poem “Stings” establishes a similar relationship between the dead imaginary father and the living but spectral husband: “A third person is watching. He has nothing to do with the bee-seller on me. Now he is gone. In eight great bounds, a great scapegoat“.
By killing her father’s memory maybe Sylvia could find relief, becoming an independent self, so we could say that “Daddy” is a metaphorical murder but she exorcizes her father’s memory by rejecting the husband, symbolically killing not one man, but two.
In fact she says “If I’ve killed one man, I’ve killed two the vampire who said he was you and drank my blood for a year, /Seven years if you want to know“. She separates the figures of father and husband and the period of seven years corresponds exactly to the duration of the poet’s marriage, thus identifying the vampire with the husband.
Since the original violence was described in language that implicated the husband, it’s clear the revenge is committed against him.
She confesses her feelings about men and death and how they are related and she is influenced by the divorce from her husband.
Sylvia wrote this poem about the many struggles in her life, that she felt were caused by either her father or her husband. All of these struggles left her a feeling of insignificance toward men, primarily her father.
By writing this poem, she is releasing her inner hostility as a means of closure for the treatment she has received.
This poem ends with a sort of “goodbye” to her father with the use of a violent language: “Daddy, daddy, you bastard, I’m through“.
But Sylvia accused her mother of the loss of her father. She has killed the first man of Sylvia’s world and so she has complicated the relationship with the other men for the rest of her life.
Plath’s life was characterised by turbulent relationship with the other sex, first of all with the authoritarian figure of the father who symbolizes the patriarchal society.
Her life changed in 1956, when she met the English poet Ted Hughes, “a big, dark hunky boy, the only one…huge enough for me“, as Sylvia said.
A male friend warned her that Ted was “the biggest seducer in Cambridge“, but the attraction between Ted and Sylvia was even greater at this meeting, she found Hughes’s power and strength irresistible.
She was very much in love with him, he was the perfect man, the saver and the “colossus” of her fantasies.
In one of her poem named “Pursuit” she said: “There’s a panther stalks me down. One day I’ll have my death of him“.
She quickly started writing poems to him and they got married.
I feel miraculously, I have the impossible, the wonderful” she wrote in her journals about her husband, “I am perfectly at one with Ted, body & soul, as the ridiculous song says – our vocation is writing, our love is each other – and the world is ours to explore“.
It was difficult for her accepting her female identity, she felt envy for men and at the same time she wished a life which was not controlled by the husband, she needed the ideal marriage, the ideal love that had to join together in a “literary marriage”.
She wanted a man who loved her because she was special, but she didn’t want to rule her future husband and at the same time she didn’t want to be ruled.
So she made the image of an ideal man, the only one who, maybe, she could accept. He was a strong man, good looking, a sort of god with whom she could create a relationship which unites creative energies.

This is why on 21st April 1956 she wrote “Ode for Ted“, a poem where she compares her husband to a superior force, showing him as a sort of god who can produce nature.
She gives him a lot of definitions, at the beginning Ted is a “shrewd stoat” that frightens rabbits (symbol of cowardice) and makes them run away, but he can even stalk red fox which is famous as a cunning animal.
But he’s also a mole with the “blue fur” that “shunt up from delved worm haunt“.
He’s strong enough to smash a quartz and he has the power to turn “flayed colors” into “ripen rich, brown” colours under the sun-light.
Ted’s look makes the soil rich and if he just touches the ground, this gives fruits and leaves, he makes the corn sprout just because he wants it!
If he moves his hand the “birds build“. He’s a sort of “king”, woods are Ted’s kingdom, a place where “Ring doves roost shirr songs to suit which mood he saunter in“.
Ted is compared to the sun and she names him “Adamo” and no woman can resist him…
She was sure that it wasn’t enough being a woman and she thought that it was a conviction she hadn’t man’s opportunities.
She wrote: “If I were a man, about this I could write a novel. But why, being a woman, have I only to cry and freeze, to cry and freeze“?

Sylvia Plath was an excellent writer, she had beauty and wit but it wasn’t enough for her, she was unhappy.
She looked for greatness but she tried to become who her mother wanted she became.
Her mother was proud of her and she projected her wishes to her daughter, those ambitions that she couldn’t cultivate because of her husband and his death.
Sylvia loved her mother’s Sylvia, she felt her as a part of her but she came to hate her and she wanted to punish her because she imposed her a hard challenge that never lets up. So she didn’t manage to be spontaneous.
She said: “My life is a discipline, a prison“, she wrote in March ‘58, “I live for my own work, without which I am nothing“.
Sylvia wanted to become a perfect personality who wasn’t afraid of her ambition and of her literary success. She said: “I think that I want to be omniscient” and she defined herself “the girl who wanted to be God“.

In “Soliloquy of the solipsist” she shows a typical feature of her personality that the same author seemed to know.
In this poem she puts right in the centre of the reader’s attention subjectivity and her ” I “, which is set on the top of every stanza.
At the beginning ” I ” could be a way to catch her personality attention…Sylvia looks after and calls for it…but she hasn’t any answer now…
After that ” I ” becomes something which explains who Sylvia is, what she usually does or how she gets in touch with the other people.
It seems as she wants to show her superiority towards anything else…towards anything natural as the moon, the trees , the grass, the sky, the sun and the flowers, or artificial as the street and the houses.
She uses her power against people, for example in sentence “dangles the puppet people” who don’t know that if “I choose to blink, they die“.
The most particular thing is that in the third stanza there’s a sort of contrast between “I-life” that “grass its green” and “blazon sky blue and endow the sun with gold” and “I-death” that makes the opposite effect on nature “to boycott color and forbid any flower to be“.
But on the last stanza Sylvia’s ” I ” comes declaring her power and her force denying that it sprang out of her head.
Anyway Sylvia tells the reader that her beauty and all her wit is nothing else that a gift from her.
The title “Soliloquy of the solipsist” has a meaning: Sylvia is an egocentric person, and her ” I ” is something really important for her because it helps her into knowing and finding herself.

Sylvia Plath couldn’t be defined a mad person, she was weak and fragile and above all too much unhappy.
Anyway she could be considered unstable because she suffered depression and she attempted suicide: the first time on August 24, 1953 and the second (the last) on February 11, 1963.
In her poems she deals with themes of death, suicide, depression: an example is “Lady Lazarus“, written in 1961, when she fuses the worlds of personal pain and corporate suffering. As in “Daddy” Sylvia Plath has used a limited amount of autobiographical details and the references to suicide reflect her own experience.
The first stanza introduces the subject: she attempted suicide and cheats death every 10 years. She says: “I have done it again / One year in every ten / I manage it“.
She equates her suffering with the experiences of the tortured Jews and she makes some Nazi references when she says: “A sort of walking miracle, my skin/Bright as a Nazi lampshade/My right feet/A paperweight/My face a featureless, fine/Jew linen“.
Her face is featureless, just like the face of one who has been burned and because burn victims are wrapped in napkins, the command to “Peel off the napkin” means the poet was a burn victim.
Later, she describes some of the only recognizable features of one who has had their face badly burned, including nose and eye pits, teeth, and the sour breath.
So she reveals that is her third suicide attempt: “And I a smiling woman/I am only thirty/And like the cat I have nine times to die/This is Number Three“. And this implies that she will continue to attempt suicide every ten years.
In the ninth stanza she addresses an audience as “Gentlemen, Ladies”, a phrase used at the circus.
Her suicide attempts become the source of the other’s amazement and entertainment: society is fascinated with death.
Many connections can be drawn between this poem and Sylvia Plath’s life.
Referring to suicide attempts, the poet says: “The first time it happened I was ten/It was an accident“.
When she was ten, her father died, a life-changing event. She may think of this as a death of the part of her.
Next, she says “The second time I meant/To last it out and not come back at all./I rocked shut/As a sea shell/ They had to call/ And pick the worms off me like sticky pearls“.
She refers when she tried to commit suicide when she was twenty.
She overdosed on sleeping pills, and it took multiple days for others to find her. This poem could be read as a prophecy, the third suicide attempt discussed being one Plath herself would undertake. After this poem was written, Plath successfully committed suicide by sticking her head in oven on February 11, 1963, at the age of thirty.

The Bell Jar” is the only one Plath’s autobiographical novel based on her experiences.
It speaks about early 1950’s society and the doubts of a girl, Esther Greenwood, an excellent student with great potentials, especially in writing.
The uncertainty about her future, after the university and the big discomfort toward a society steeped in conformity, brings her to a strong identity crisis, to attempt suicide and to a subsequent, slow and doubtful “return to life”.
By thinking about herself, she shows us the opportunities that often a brilliant twenty year old woman as her had in America.
Marriage is the target of a critic which wants to underline how it’s often like a cage for the freedom of a woman, like a negation of an independence that, it Esther’s case, made itself the education.
With the female characters of the novel, Sylvia deals with the social question about Feminism.
The need of independence clashes with different male characters who reflect a traditional mentality and substantially a chauvinist male.
Their difficulties emerge above all when she faces the choice about what job she has to do.
A great deal of the novel concerns the expectations that others have for Esther with regards to behaviour and her future, as well as the expectations that Esther has for others.
Esther feels that she is pressured to succeed in whatever career she chooses and she also feels pressured concerning proper codes of behaviour, particularly with regard to sexuality.
She worries most that she cannot cook nor take short hand, and ironically she worries about not being able to fulfil mundane duties rather than worrying about larger questions of what she does as a successful career woman. Her problem is that she has too many options, but no satisfying option that can conform to what is traditionally expected of her.
She cannot reconcile a successful career that she may choose with the traditional roles of her society.
She is constantly monitored by others and one of the most significant causes of her depression is the high-pressure environment where Esther lives, so the madness is a desperate reaction to what the world can give her.
The theme of societal pressure even continues into mental hospital where the greatest concern of Esther’s mother and even some of the patients is that they will not be accepted in their particular social circles because of their mental illness. Esther’s decision to abandon her long time devotion to chastity could represent an assertion of her independence in the face of the societal repression around her.
Sylvia lends credence to the idea that is repression that drives Esther Greenwood to despair and depression.
Buddy Willard comes to symbolize the broader forces of society that repress Esther: he literally calls her “crazy” for never wanting to get married, thus assuming that the only same choice for a woman is to become a wife.
A sense of confinement permeates Plath’s novel, even represented by the bell jar that forms the title of the book. The sense that she is trapped is the most obvious manifestation of her mental illness. She feels as under a bell jar, protected and far from what happens around her, for example she stays in a hotel only for women and probably this means an attempt to keep away women from men.
The bell jar symbolizes Esther’s suffocation, for the jar intends to preserve its ornamental contents but instead traps them in stale air.
Plath includes several instances in which Esther imagines herself as confined.
She says: “It’s quite amazing how I’ve gone around for most of my life as in the rarefied atmosphere under a bell jar“.

Plath’s poems belong to the so called “confessional poetry”, since they reveal the most subjective feelings, the deepest emotions and torments as if in a confession.
They are usually written in free verse as fragments of consciousness by a masterful use of sound effects and rhythm.
So her poetry couldn’t be defined only a feminist or female poetry, it’s the proof of her suffer and the description of her personality: she was egocentric, sad and pessimist, so she needed to burn again with poetry and with death’s thought.
She manipulated words in a magic way, looking for a careful and original use of words.
She used repeated sounds, melodies, refrain and nursery rhyme, looking for musicality of words, and at the same time she seemed angry showing it with a violent and deep language.
Anyway Plath’s poetry is above all pure emotion, something spontaneous which frightens her.
Poetry is self-analysis, the search for her identity, the only way she could put order to her life.
Sylvia said : “Poets that I love are possessed by their lines as the rhythm of their breath. I think that my poems arise immediately by my sensuous and emotive experiences, but I’ve to say I don’t like heart’s shouts… I think that the experiences, even the most terrifying, even madness and torture have to be manipulated“.
Poetry and breath are the same thing and Sylvia said : “I would die if I didn’t manage to write about nobody else who is not me“.

Manuela Scano